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Dedico questo libro a tutti coloro che hanno deciso di togliersi la vita, per ridare loro la dignità sottratta dalle parole di troppi. A chi mi chiedeva cosa mi avesse spinto a scrivere racconti tanto intrisi di tristezza ho raccontato un avvenimento a cui ho assistito.
Il treno sul quale mi trovavo per tornare a casa dall’università si fermò improvvisamente. Il capotreno, allora, informò i passeggeri che la sosta improvvisa a due stazioni di distanza dal capolinea era dovuta ad un incidente ferroviario: un giovane era stato investito da un treno nei pressi della stazione di Caserta.
Lo sconforto intrideva l’aria fredda. In quel momento si fece in me viva la terribile consapevolezza che l’evento di cui ero stato inerme testimone non fosse l’unico, e che innumerevoli erano le vittime lungo quella tratta.
Sulla banchina della stazione di Cancello si era creato un’atmosfera di lutto, nel silenzio di una precoce notte d’inverno, fino a quando sentii una donna urlare senza la minima vergogna che le corse venivano continuamente soppresse e retoricamente chiedere a che ora sarebbe arrivata a casa. Al che il controllore, pietrificato nel silenzio tramutato in imbarazzo, pronunciò una frase che mi rimase impressa:
Signora, è morto un ragazzo. Almeno lei a casa ci torna.
Solo successivamente appresi dai giornali «che un carabiniere di 34 anni, Emanuele Reali, era stato travolto e ucciso da un treno mentre stava inseguendo un delinquente. Lasciava moglie e due figli piccoli». Quell’uomo non avrebbe mai più riabbracciato la sua famiglia, come molti altri di cui spesso si tace. Non sempre, però, quelli che abbandonano la propria vita tra le rotaie, sono vittime di terribili incidenti, sono tanti quelli che decidono di non far più ritorno a casa, forse perché a casa non ci si sono sentiti mai. Ho quindi deciso di immaginare le storie e i pensieri, spesso velati dietro il sipario della notizia da giornale, di chi voleva porre fine alle proprie sofferenze.
Non tutti i protagonisti vogliono morire, non tutti muoiono, ma sono tutti legati da un sentimento di nostalgia, di tristezza, di inquietudine, instabilità psichica, che genera sicuramente tristezza.
Sono immagini, sono pensieri, di persone profondamente deluse dalla vita, che non hanno trovato il proprio posto nel mondo, che hanno intenzione di oltrepassare la linea gialla, e mettere così fine alla loro vita. Non credo che il sentimento possa essere altrimenti che la tristezza, la malinconia. Ogni situazione è simile per questo, ma ogni situazione è radicalmente differente, perché è radicalmente differente il modo in cui ognuno di noi vive la sua vita e compone i suoi pensieri.
Ho voluto quindi analizzare la mente di questi personaggi, di queste anime, di queste storie che ne hanno temprato le menti, un attimo prima di attraversare la linea gialla. E poi tutto buio, perché oltre non c’è che il vuoto e l’oscurità: non c’è speranza, non c’è rimpianto, non c’è contrazione, non c’è rilassamento, non c’è risoluzione dei problemi, ma nemmeno sofferenza. Non più.
Almeno per loro.
Attenzione. È vietato oltrepassare la linea gialla.
La voce registrata proveniente dai vecchi altoparlanti grigi era l’unica vibrazione che riusciva a smuovere l’aria ghiacciata dal gelo di gennaio, e quella linea gialla era ben visibile sul ciglio della banchina.
Era da poco passato un altro anno, e quello nuovo, come ogni anno d’altronde, si prospettava migliore, con i politici sorridenti che promettevano un cambiamento che non arrivava mai, mentre con altrettanto sorriso la gente salutava dandoti il tu, data la giovane età, e facendoti gli auguri, nonostante le feste fossero passate da qualche giorno ed oramai tutti fossero tornati alle stesse attività di un paio di settimane prima, con la stessa fatica ma con un po’ di speranza in più.
Attenzione. La stazione è sorvegliata da telecamere. I bagagli incustoditi verranno controllati dalla polizia ferroviaria.
Mi scappa un sorrisetto violaceo velato dallo scaldacollo nero di pile comprato qualche anno fa. Non si era mai visto un solo poliziotto in quella piccola stazione di Maddaloni, ma in fondo a cosa poteva mai servire controllare un bagaglio incustodito qui. Neanche fosse una grande stazione, con migliaia di turisti; di certo sarebbe più sensato un attacco terroristico a Napoli Centrale. Più sensato, poi. Per quanto senso possa avere.
La tromba di un treno in avvicinamento mi assorda il timpano sinistro: è un treno proveniente da Napoli, ovviamente con quasi mezz’ora di ritardo.
Attenzione. Treno in arrivo al binario due. Allontanarsi dalla linea gialla.
Tiro lo scaldacollo fin sopra le orecchie gelide ed affondo le mani nelle tasche del montgomery grigio fumo comprato uno o due inverni fa, mentre un treno troppo lungo per la banchina si ferma lentamente con il lungo e fastidioso fischio dei freni.
Annuncio cancellazione treno. Il treno regionale venti-sei-quattro-zero-sei, delle sei e quarantasette, proveniente da Napoli Centrale e diretto a Caserta oggi non è stato effettuato.
Pochi secondi di fiato sospeso, e tiro un sospiro di sollievo sapendo che non fosse il mio treno, ignorando tutti coloro che sarebbero saliti su quel treno, se solo fosse partito.
Quante volte però le parole tra sgomento e rabbia che riempivano le stazioni per cui sarebbe dovuto passare quel treno erano state pronunciate da me e dai miei colleghi dell’Università per qualche treno che Trenitalia aveva avuto la bella idea di non far partire, eppure quel giorno non c’era, o almeno non sembrava esserci, alcun problema: non un guasto ad Acerra, nessuno aveva rubato i cavi della corrente dalla stazione di Acerra, nessun imbecille era rimasto bloccato sui binari adiacenti ad un passaggio a livello di Acerra. Si, perché se qualche treno subiva qualche ritardo o addirittura veniva cancellato, il danno era con grande probabilità proprio ad Acerra, e la linea che collega Maddaloni e Napoli passava necessariamente di lì.
Mi ero svegliato presto, verso le 5.30, avevo ingoiato qualche biscotto intinto nel latte intero e mi ero lavato subito i denti. Avevo infilato nella borsa il portatile pagato con la carta del docente di mia madre già qualche mese prima e avevo pensato fosse meglio portarmi il quaderno con gli appunti e il libro di fondamenti di informatica, pur sapendo che non li avrei neanche aperti prima di cominciare l’esame.
Doveva necessariamente andare bene, non perché ero sicuro del mio studio, ma perché doveva. Era il primo esame universitario di tutta la carriera, e per giunta forse il più semplice. Nella programmazione me la cavavo bene, ma nella teoria forse un po’ meno, forse perché il mio cervello non ne capiva l’utilità in una materia talmente pratica.
Doveva necessariamente andare bene, perché era una dimostrazione a me stesso, ma forse più a mia madre, e altrettanto a mio padre, che ne ero capace.
Ero sceso di casa con grande anticipo sotto le insistenze della mia genitrice, e dopo una decina di minuti di auto avevo lasciato la 500L beige al solito posto, nel parcheggio adiacente alla pompa di benzina.
Erano passati quasi due anni da quando mio padre ci aveva lasciati, e quella maledetta 500L non faceva che ricordarmelo, nonostante mi piacesse tanto guidarla. Quante volte avevo pensato come sarebbero state diverse le cose se quella sera avessi sentito come sempre il rumore delle chiavi girare nella serratura. Niente patentino a diciassette anni, niente auto 50cc, niente lavoro in pizzeria, niente auto nuova a diciotto anni. Ma poi allontano questi pensieri: è inutile sperare di poter rinunciare a queste piccole cose per anche solo un ultimo abbraccio.
Il tempo non scorre inesorabilmente silenzioso, in punta di piedi, senza che te ne accorga, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, in un ticchettio di tacchi di donna. Il tempo passa, e ti penetra i timpani. Ti fa bruciare gli occhi, ti riempie i polmoni. Ti fa tossire, ti fa stancare, invecchiare. E tu, stordito e impaurito da Lui, con la vista annebbiata dalle sue percosse speri ancora, seppure impossibile, di riuscire a fermarlo, anche se per un singolo attimo, anche se per un singolo abbraccio.
Connesso il telefono all’autoradio, e avviata la musica in shuffle, cominciò a risuonare all’interno dell’abitacolo “In me” registrata in settembre con la mia band grazie alla vincita di un contest.
Mi ero avvicinato al meraviglioso mondo della musica da piccolo, prima di cominciare a suonarla, cantando nella Skoda Fabia di mio padre durante qualsiasi viaggio anche di breve durata. I CD masterizzati con playlists di autori misti riempivano il portaoggetti e aspettavano solamente di essere inseriti nell’autoradio.
Avevo deciso di non restare in auto al caldo, con la musica ad alto volume, preferendo avviarmi a passo lento verso la fatiscente stazione distante poche decine di metri, con il cellulare in mano e le dita congelate dal vento.
Leggevo i messaggi inviati da qualcuno la sera prima, e ne inviavo di nuovi nell’attesa che fossero letti, fra qualche ora, quando il sole si fosse alzato un po’, e le tapparelle delle finestre si fossero sollevate, inondando le case della ridente quanto fioca luce d’inverno.
Attenzione. Il treno regionale venti-sei-zero-cinque-nove, delle sei e quarantacinque, proveniente da Caserta e diretto a Napoli Campi Flegrei è in arrivo al binario uno. Allontanarsi dalla linea gialla.
Resto immobile per qualche secondo, faccio un respiro profondo e blocco lo schermo del cellulare. Posso vedere il mio riflesso nel vetro nero, a contrasto con il chiarore del cielo appena illuminato dai giovani raggi di sole. Mi alzo dalla panchina in ferro battuto e sollevo in spalla la pesante borsa tenendola con la mano sinistra, mi guardo un po’ intorno e faccio un paio di passi in avanti verso la fatidica linea gialla: io la guardo come lei mi guarda, ma sollevo il capo e mi sporgo, per vedere all’orizzonte il treno arrivare. Mi sento sprofondare nel vuoto e faccio un passo indietro.
Attenzione. Treno in arrivo al binario uno. Allontanarsi dalla linea gialla.
Noto con la coda dell’occhio un ragazzo conosciuto in treno una sera di circa un mese prima di ritorno dall’ultimo giorno di corsi dell’anno, accenno un saluto e mi si avvicina, chiedendomi con poco interesse come mi andasse la vita. Rispondo che andava tutto bene, come al solito. La tromba del treno che suona, la vista annebbiata dalle lacrime ghiacciate dal freddo, faccio nuovamente un passo verso la linea gialla.
Ed ora un lungo fischio offuscato dal rumore del vento, e un altro passo verso i binari.
Ho attraversato la linea gialla, e mi sento più rilassato, in pace.
Ho attraversato quella maledetta linea gialla, e non ho più alcun pensiero.
Ho finalmente attraversato la linea gialla, ed il mio corpo è sprofondato nel calore del treno.
La lancetta dei minuti scatta sul dodici, quella delle ore è ferma sul sette da un po’ ormai; l’orologio della metro segna l’inizio della tua dodicesima ora fuori casa. Tra trenta minuti arriverà il tuo treno. Ti siedi su una panchina sporca e inizi a guardare i binari di fronte a te. C’è un silenzio irreale, puoi quasi sentire il rumore dell’orologio.
Tic toc.
Un treno in lontananza trafigge l’aria sfrecciando davanti ai tuoi occhi, una folata di vento ti scompiglia i capelli un po’ più grigi, un po’ più radi di qualche giorno fa.
O qualche anno?
Ti sfili gli occhiali, li pulisci con la cravatta per poi uncinarli alle orecchie, sospirando. Guardi l’orologio, la lancetta dei minuti scatta sul tre: ancora un quarto d’ora e potrai salire sul treno che ti riporterà a casa.
Quale casa?
Finalmente, guardandoti intorno, ti accorgi dell’esistenza delle altre persone: un uomo legge il giornale poggiandosi alla parete, una madre gioca con il figlio nel passeggino, due ragazzi si scambiano sussurri mentre i loro nasi si sfiorano. Ti fermi ad osservarli, un po’ troppo: si girano verso di te e ti guardano sorpresi. Ti affretti a distogliere lo sguardo deglutendo. Gli occhi si riposano sull’orologio.
Diciassette. Tic toc.
Senza volerlo il tuo pensiero ritorna a quei due ragazzi che ti è proibito osservare. È impossibile per te, adesso, non ritornare indietro nel tempo di venti, trent’anni. Rivedi degli occhi scuri e profondi, delle labbra rosee che accarezzi con il pollice, una ragazza, poco più di quindici anni, che dice di amarti, che tu ami, che alla fine hai sposato. Fu il giorno più bello della tua vita perché vedevi lei sorridere tra gli invitati, stringersi a te, baciarti dolcemente. Ma poi, con il passare dei giorni, il sorriso ha iniziato a spegnersi, non voleva più starti così vicino, non ti baciava più.
Accanto a lei un altro.
All’inizio non riuscivi a crederci, ma poi, tutto sommato, pensasti che prima o poi sarebbe dovuto succedere: a casa non c’eri mai, tutto preso dal tuo lavoro, e, quando c’eri, eri troppo occupato a giocare con i tuoi figli piuttosto che pensare a Lei. L’avevi messa in secondo piano: era tutta colpa tua.
È sempre colpa tua.
La colpa è tua che hai eletto a priorità la carriera, e ora ti ritrovi, per chissà quale scherzo del destino, a fare un lavoro pieno di responsabilità ma povero di gratificazione. Non ne puoi più. Pensi che se in quel momento sparissi, se andassi via, a nessuno importerebbe: tua moglie ti odia, i tuoi figli sono ormai andati via di casa e i tuoi altri parenti…beh loro non ti parlano ormai da anni. Vorresti scappare in un luogo lontano. Pensi all’Indonesia, all’estate perenne, al mare cristallino. Ah, quanto ti piacerebbe volare via, su di un soffio di vento, guardare dall’alto paesi, città dai colori completamente diversi da quelli a cui sei abituato. Hai una voglia matta di tuffarti nell’oceano, nuotare con i delfini o, magari, esplorare la barriera corallina. Berresti volentieri una birra fredda in un bar di Dublino e passeresti una notte ad osservare le stelle disteso sull’erba umida. Moriresti tra le braccia di una geisha.
Ventuno. Tic toc.
Il desiderio di abbandonare tutto, di lasciarti ogni cosa alle spalle ti alletta come non mai, fa fremere le tue membra stanche, sei consapevole che tutto ciò è impossibile, che non scapperai mai, ma sognare non costa nulla no?
Ma che te ne fai dei sogni?
Cavi il cellulare fuori dalla tasca dei pantaloni, avvii il motore di ricerca, digiti “voli Indonesia”, invio: un mondo di possibilità si palesa dinanzi ai tuoi occhi, su quel piccolo schermo luminoso. Inizi a scorrere, apri siti di compagnie aeree, leggi i prezzi… 1100, 1112 addirittura 1226. Blocchi il telefono e lo infili di nuovo in tasca. Tutto inutile: morirai da miserabile, vivendo una vita che odi. È incredibile come si possa passare dall’euforia alla disperazione in così pochi secondi. Ti passi una mano tra i capelli e stringi forte gli occhi nel tentativo di impedire a quelle lacrime di uscire.
Ventisei. Tic toc.
Quando riapri gli occhi il mondo attorno a te è sfocato, ma riesci a distinguere la sagoma di un treno sui binari di fronte a te. Batti le palpebre per un paio di volte, sì il treno c’è davvero. Guardi l’orologio: non può essere il tuo, è ancora troppo presto. Decidi di accertarti della cosa guardando il tabellone, ma quello che vi è scritto sopra ti lascia a bocca aperta: “Innsbruck”. Non riesci a crederci: è l’occasione che aspettavi, non puoi contenere la gioia, sei di nuovo euforico. Balzi in piedi con un sorriso che parte da un orecchio e arriva all’altro. Non hai il biglietto, poco male: chiederai al controllore di pagarlo una volta a bordo. Ti avvii pimpante, quasi saltellando, verso le porte, le apri, entri e ti accomodi. Innsbruck non sarà Bali, ma è un inizio. Finalmente si parte: senti il rumore del motore, ma è strano, sembra avvicinarsi a te gradualmente.
Trenta. Tic toc.